Percorsi in bicicletta tra Collio, Carso ed Isonzo… sui luoghi della Grande Guerra nella provincia di Gorizia…

Rudyard Kipling “Soltanto pochi passi più in su…”

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Rudyard Kipling “Soltanto pochi passi più in su…”


Per un lavoro speciale son necessari, bene inteso, gli specialisti; ma per tutti i lavori occorre la giovinezza su ogni altra cosa! Quella sezione del fronte italiano, dove i soldati debbono fare i montanari e così pure arrampicarsi, è difesa da Reggimenti di Alpini. Questo Corpo è reclutato fra gli abitanti delle montagne, i quali sanno bene come queste la pensino. Sono uomini abituati a portar carichi lungo sentieri non più larghi di cinquanta o sessanta centimetri; uomini che girano intorno a precipizi di mille piedi di profondità. Loro linguaggio è il gergo delle montagne, che ha una parola adatta per significare ogni aspetto e ogni capriccio della neve, del ghiaccio e della roccia; essi vi parlano con tanta esattezza di ogni più minuto particolare, da sembrare gli stessi Zulù, allorchè vi descrivono la qualità del loro bestiame.

Portano un cappello «alla lobbia», ornato di una penna (logora talvolta fino a rassomigliare a un moncone); i chiodi ritorti delle loro scarpe paiono le zanne di un lupo e sono altrettanto aguzzi; gli occhi, acutissimi, rassomigliano a quelli dei nostri aviatori; l’incesso, sul loro proprio terreno, fa pensare al mare; e, in verità, non avevo mai avuto l’onore di incontrarmi con un’accolta di così buoni diavolacci, nè di ragazzi più briosi, più proprî e dallo sguardo più fermo di costoro.

«In che consiste il vostro lavoro?» fui abbastanza ingenuo di domandar loro, mentre ero assiso tranquillamente a una mensa di ufficiali, situata a settemila piedi di altezza, fra i pini e le nevi. Per il momento la foresta ci privava della vista opprimente della montagna.

«Oh, venite a vedere» dissero quei giocondi fanciulloni. «Stiamo lavorando pochi passi più in su, sulla strada. Pochi passi più in su».

Mi condussero su un carretto fino al termine della linea degli alberi, in alto, sull’orlo del bacino montuoso, ai piedi di una scoscesa muraglia rocciosa, dominante all’intorno, che io avevo veduto avvicinarsi, a poco a poco, per ore ed ore, lungo la strada. Alla distanza di venti o trenta miglia il masso enorme sembrava assolutamente e implacabilmente inaccessibile ad una scalata, come, presso a poco, il Monte Bianco veduto dal lago. Avvicinandolo, però, lo avevamo trovato ancor più ripido e ci era apparsa una solitudine di balze, dall’aspetto minaccioso, e di orribili crepacci. A breve distanza, e quasi proprio di là sotto, si poteva vedere che esso, il Mostro, dove non arrotondava il suo ventre come la parte di un bastimento veduta al momento del varo, si innalzava a picco. Ogni dettaglio del suo aspetto mostruoso, messo ancor più in rilievo dalla luce del sole, nell’aria limpidissima, s’imponeva d’un tratto alla vista, opprimendo lo spirito, come potrebbe farlo un nuovo mondo e stancando l’occhio come una fotografia ingrandita a proporzioni gigantesche.

Lo nascose nuovamente ai miei occhi una galleria scavata nella neve, larga abbastanza da contenere un veicolo, tirato da due muli. Questa aveva una tinta bruno-fosca, là dove la volta appariva più spessa, e si illuminava di un fantastico bagliore azzurrognolo, dove era sottile, fino a quando non si apriva sulla luce abbagliante, ove il calore del maggio ne aveva corroso l’arco, liquefacendolo. Vi si transitava però sopra uno strato levigato di ghiaia per tutto il suo percorso e vi erano stati costruiti rigagnoli bene ordinati ai lati, per portar via lo stillicidio della neve. Sia all’aperto, sia nell’oscurità, l’Italia non costruisce che una sola specie di strade.

«Questa è la nostra strada» mi spiegarono quegli allegri fanciulloni. «Non è ancor compiuta… Perciò voi prenderete posto sul dorso di questo mulo e noi vi condurremo fino agli ultimi tratti, pochi passi soltanto più in su».

Volsi nuovamente lo sguardo verso le dighe nevose che torreggiavano in alto. Non si vedevano neppure delle rughe sulla superficie della montagna ma culmini orrendi e punte aguzze, tutte uniformi, dal colore olivastro, ammucchiate come scolature di candele intorno al masso centrale della nuda roccia, la cui mole gigantesca sembrava inclinarsi verso di me. La strada era un’amalgama di ghiaia e di pietre, la popolavano squadre di terrazzieri. Nessuno si affrettava; nessuno attraversava la via al suo vicino. Si udivano pochissimi comandi; però, al tempo stesso in cui il mulo mi traeva su in alto seguendo, intorno, intorno, il tracciato della nuova strada, questa sembrava formarsi e compiersi a poco a poco.

Vi sono delle piccole cabine per macchine ai piedi di quelle speciali minuscole funicolari svizzere, le quali per cinquanta centesimi solevano portare in alto gli appassionati di sport  invernali con le loro piccole slitte da toboggan. Il medesimo impianto si trovava qui sopra una piattaforma, tagliata nella roccia e avente lo stesso odore di legno segato di recente, di petrolio e di neve; e vi era lo stesso stadio di uncini tesi, sulla terra fangosa. Ma, invece della ferrovia à cremagliera, un cavo di acciaio poggiato su piccoli pali e portante una cesta a traliccio di fili di acciaio, scorreva su, per i fianchi della roccia, ad un angolo che è superfluo specificare.

Come ferrovia, era un nonnulla — il più insignificante utensile da drogheria, come mi dissero — e in verità ne avevamo veduti di più alti nelle vallate sottostanti; ma quella certa nudità di rocce e di neve, giù a basso, e gli urli del vento che fischiava obliquamente da crepacci e da fessure, mentre noi passavamo, la rendevano interessante.

Allo scalo, posto a quattro o cinquecento piedi di altezza (noi ci trovavamo a più di diecimila piedi al disopra della mensa degli ufficiali, fra i pini) era di un sistema — che ricordava le impronte d’edera quando questa è staccata dai muri — tutto a risalti e a sentieri di neve battuta fino all’indurimento, che univa i baraccamenti alla cabina adibita a cucina, alla mensa degli ufficiali ed io immagino persino alla piazza d’Armi della guarnigione. Se al cuoco fosse capitato di lasciarsi cadere una secchia dalle mani, egli avrebbe dovuto scendere non meno di seicento piedi per ricuperarla. Se ad un visitatore prendesse la voglia di andare un po’ lontano, allo svolto di un angolo, per ammirare lo stupendo panorama, egli si scoprirebbe agli Austriaci, che sono profani dell’arte, e che ben presto farebbero volare al suo indirizzo degli shrapnells. Tutto questo mondo di «nidi d’aquila» ferveva di giovani vite e di energia, mentre tavole, travi di ferro, e balle di ogni materiale venivano portate su col filo aereo; mentre la montagna sovrastante, che dominava ancora per centinaia di piedi fino alla vetta, pareva ripiegarsi su tutto questo Insolito mondo.

«Il nostro vero lavoro trovasi un po’ più in su — soltanto di pochi passi, essi insistevano. Maio mi rammentai che fu Dante stesso che disse:

          «…e com’è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale».

A buon conto, il loro lavoro non interessava altri, eccettuato il nemico che stava lì intorno da ogni canto. Era semplicemente la consueta routine in uso da queste parti. Essi ne vollero fare un breve riassunto al loro ospite. Ecco: voi vi inerpicate su per una fessura o per un canalone — sia a forza di spalle o di ginocchia, come ben sanno fare i montanari — e di notte, ad arbitrio, perchè di giorno il nemico scaraventa sassi giù nel crepaccio. Una compagnia di Alpini impiegò una intiera quindicina di notti invernali per spingersi su in alto attraverso una di queste fenditure: dovevano però trasportare con loro mitragliatrici ed altro materiale.

(«A proposito, alcune delle nostre mitragliatrici sono di fabbrica francese, di modo che questo nostro souvenir del Corpo di Artiglieria — vi preghiamo di gradirlo; , vogliamo che lo prendiate — rappresenta le figure riunite della Francia e dell’Italia»).

— E così, quando voi uscite dal vostro canalone — è assai prudente farlo quando infuria la tempesta, o quando soffia forte il vento, perchè le scarpe chiodate fanno rumore sulla roccia — vi trovate nelle condizioni o di dominare la posizione del nemico in cima alla montagna, e in questo caso voi lo distruggete e gli tagliate via i rifornimenti, sparando sugli stretti sentieri donde gli provengono; oppure vi trovate nella condizione di essere dominato dal nemico, da qualche cornicione che voi non conoscevate, o da qualche cocuzzolo della roccia. In questo caso, potendo, voi ridiscendete, e provate altrove.

Ecco come si svolgono simili operazioni su questa sezione del fronte, ove il nemico non permette di fare altrimenti.

Le operazioni speciali sono eseguite un po’ diversamente. Scegliete un culmine di montagna che avete ragione di ritenere sia infestato dal nemico e occupato dalle sue opere. A furia di unghie e di scarpe chiodate riuscite ad allogarvi lì sotto; poscia sfondate la solida roccia, mediante perforatrici ad aria compressa, per tante centinaia di metri quante, calcolate siano necessarie. Quando avete finito, riempite la galleria con nitroglicerina e fate saltare la cima della montagna. Dopo di ciò, occupate al più presto possibile il cratere così prodotto, con soldati e con mitragliatrici. In tal modo vi assicurate la posizione dominante, dalla quale potrete conquistare altre posizioni, con lo stesso metodo.

«Ma, sicuramente, voi siete informato di tutto ciò; avete veduto il Castelletto» disse qualcuno. Esso emergeva, sotto l’ardore del sole, bastione screpolato e coronato da picchi simili a radici di denti molari. Il suo picco più alto era sparito. Una fenditura, un cratere e una vasta scarpata di roccia frantumata lo avevano sostituito. Si, avevo veduto il Castelletto, ma mi interessava conoscere gli uomini che lo avevano fatto saltare in aria.

«Oh, fu lui. Eccolo lì».

Un ufficiale, dagli occhi di poeta o di musicista, sorrise ed approvò col capo. Già, egli ammise, fu coinvolto nell’affare del Castelletto. Lo descrisse perfino in una relazione. Furono adoperate trentacinque tonnellate di nitroglicerina per quella mina; l’avevano portata su tutta a braccia in quei giorni nei quali egli era ancora sottotenente, e i soldati vivevano sotto le tende prima dell’impianto delle ferrovie aeree; — molto tempo fa.

«E così il vostro battaglione compì tutta l’impresa?».

«No, no; non tutta, invero; ma, prima di aver finito nel Castelletto, noi dovemmo fare da minatori, da meccanici e conoscemmo mestieri che non ci saremmo mai sognati di fare. Del resto così è in questa guerra».

«E la faccenda delle mine continua tuttora?».

Si, potevo essere certo che continuasse.

«Ed ora, per favore, vorreste venire ad ascoltare la musica della nostra banda?». Essa vive sulle anfrattuosità della roccia — e avrebbe suonato la marcia del Reggimento e quella della Compagnia; a questo punto uno di quegli allegri fanciulloni scosse mestamente il capo, osservando: «quegli Austriaci decisamente non sono portati per la musica, non hanno orecchio affatto».

Figuratevi una muraglia rocciosa che si incurva a forma di baldacchino; prendete una banda

Una trincea tra le nevi.

Nel Trentino: Un valico tra le nevi.

Caduto

volenterosa che eseguisce ogni sorta di melodie; immaginate pure dei costoni di roccia, che ad ogni lato propagano il suono giù, per un migliaio di piedi, fino ai duri campi nevosi sottostanti; aggiungetevi gli echi rimbombanti per ogni crepaccio, per ogni cul-de-sac, per mezzo miglio di fronte di montagna; tutto ciò vi darà un tale risultato, vi assicuro, da far sembrare la musica di Wagner un sussurro al paragone.

Che quei ragazzi avessero destato l’Austria, non importava; essa era lì, proprio alla voltata; ma mi sembrava che tutta l’Italia dovesse udirli attraverso quelle correnti di aria leggera.

Strepitavano, nitrivano, ruggivano: le facce dei musicanti, dietro gli ottoni, erano solcate dalle risa e la montagna ripeteva fedelmente e più volte i loro insulti sonori. La Marcia della Compagnia non destò alcun applauso: immagino che il nemico l’avesse udita troppo di frequente. Allora cominciammo con gli inni nazionali. La Marsigliese non riportò che un succès-d’estime, attirando uno o due shrapnels negligenti; ma, quando la banda intuonò per essi e per tutto l’arco accusatore del ciclo la Brabançonne, il nemico manifestò la più viva commozione.

«Ve lo avevo detto che essi mancano di gusto» — disse un giovane dall’aspetto di fauno che stava sopra una mensola rocciosa. «Eppure ciò dimostra che quei porci posseggono una coscienza». Ma per quei ragazzi non era mai tempo di finirla; d’altra parte le squadre dei terrazzieri che lavoravano sulle strade dovevano oramai rientrare. Perciò dall’alto fu dato l’avviso al nostro pubblico invisibile che la rappresentazione era finita, e che era inutile applaudire oltre. Questo ordine fu partecipato un po’ più brevemente di quanto ho detto; e risuonò effettivamente come uno schiaffo.

Il silenzio si estese allora insieme con le grandi ombre delle colonne rocciose, attraverso la neve; si udì un colpettìo ed un tintinnìo su per il versante del monte e come uno scivolare di pietre ruzzolanti. La ferrovia aerea continuava i suoi viaggi come al solito: le squadre dei terrazzieri abbandonarono il lavoro, accatastarono gli arnesi, e cominciarono le veglie notturne.

L’ultima visione che io ebbi degli allegri fanciulloni fu quella di un aggruppamento di figure simili a gnomi, duecento metri più in su — poichè non vi era punto d’appoggio visibile — piantati sul vuoto. Essi si separarono e si recarono a compiere ciascuno le sue faccende, divenendo, a poco a poco, dei puntini tenui, moventisi in alto o da una parte, sul fianco della roccia, fino a che non disparvero entro di essa come formiche. Il loro lavoro si trovava «soltanto pochi passi più in su», dove i posti d’osservazione, le sentinelle, i sostegni e tutto il resto, vivono sopra un terreno, in paragone del quale i piccoli sentieri intorno alla mensa degli ufficiali ed ai baraccamenti sono addirittura pavimenti livellati.

Quelle ronde debbono eseguirsi con qualunque tempo e sotto qualunque luce si possano avere lassù all’altezza di uncidicimila piedi, con la Morte per compagna, sotto ogni piede. Rocce lucenti di ghiaccio, dove una scarpa dai chiodi logorati scivola una volta ed una volta sola; raffiche di vento di montagna, intorno alle sporgenze, che avvolgono il corpo prima che possa tendersi per affrontarle; cumuli di schisto infradiciti, sgretolantisi sotto la pressione di una mano; una caviglia che si storce in fondo a una fessura alta trenta metri; una valanga di pietre, liberate dalla neve e provenienti da qualche recesso montuoso che il sole ha minato durante la giornata: questi sono alcuni dei pericoli che quei bravi affrontano, andando o tornando dall’aver sorbito il caffè, o dall’aver ascoltato il grammofono nella mensa degli ufficiali «nell’ordinario esercizio delle loro funzioni».

Una voltata della strada in discesa li sottrae, insieme con tutto il loro mondo, alla mia vista; i miei occhi non li vedranno mai più. Ma l’ardente giovinezza, la pletora di energia, il lieto disprezzo, quasi l’insolenza di ogni pericolo, la serietà mantenuta all’ora del caffè, ma perduta completamente allorchè la banda suonò per deliziare il nemico, e infine la loro sincera cortesia giovanile, saranno per me fra i ricordi più cari e imperituri. Ma, dietro a ogni cosa, sottile come i cavi di acciaio, implacabile come la montagna, si sentiva tutta la tenacità della loro razza indomita.


Un valico, un Re, e una montagna – Eserciti e valanghe

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