Percorsi in bicicletta tra Collio, Carso ed Isonzo… sui luoghi della Grande Guerra nella provincia di Gorizia…

Mato de guera

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Mato de guera di Luigi Mardegan

Mato de guera. Davvero un gran bel spettacolo quello messo in scena venerdì 19 maggio 2017, presso la Sala Italia a Cormons. Ahimè scarsa l’affluenza di pubblico, ma come si dice, gli assenti hanno sempre torto. E a maggior ragione in questa occasione. Forse il fatto di portare uno spettacolo in dialetto trevisano (…abbastanza stretto ) nella patria goriziana della furlanìa, non ha aiutato. Per fortuna, le mie origini, si sono dimostrate indispensabili, per non perdere nessuna battuta del monologo dell’ottimo Mardegan. Il testo di Gian Domenico Mazzocato è sempre abbastanza  comprensibile e dove non arrivano le parole,  si intuisce il significato,  attraverso la mimica, la gestualità, la presenza scena, straripante e coinvolgente dell’attore.

La memoria è la vera e propria malattia. Non c’è altro rimedio alla pazzia che nel ricordare e specialmente nel raccontare.

Ugo Vardanega

Ugo Vardanega è un reduce della Prima Guerra Mondiale. Siamo nel 1935, durante il ventennio fascista. Le musiche alla radio, che fanno capolino più volte, sono a ricordarcelo. Tutto si scatena in lui.  Riaffiorano prepotenti i ricordi. Vede camion passare, pieni di pietre e ossa e “sabbion” con i resti umani dei suoi commilitoni. Materiali  che verranno utilizzati per edificare i nuovi ossari, mausolei di guerra. La prima guerra ha dato una vittoria mutilata all’Italia. E’ necessario disseppellire i morti, dopo 18 anni,  nei quali sono stati completamenti dimenticati. La funzione unica è quella di sfruttarlo,  ancora una volta,  per la nuova propaganda di guerra. Ecco la ragione principale per cui il protagonista “esce di senno”.

Il medico che vuole curarlo, lo fa,  costringendolo a far riemergere dall’oblio, i suoi ricordi.

La memoria

Ma se la memoria fosse un braccio, volentieri me lo amputerei.

La memoria è un macigno, è un cancro che corrode .  Considerato matto,  è costretto a subire soggiorni obbligati nel manicomio di Treviso. Le sue parole.  “Come si fa a dire matto ad una persona,  dentro un mondo di matti che corre verso un’altra guerra? Quale scelta è concessa? Morire di gas asfissianti sul Carso, sbregà da una pallottola o fucilato dal tuo tenente? Dentro una storia di identità fatta a brandelli“. Ed ecco che nella lucidità totale, comprende di essere

come una bolla di sapone che ogni tanto deve scoppiare.

La retorica degli ossari e dei sacrari. Quelle frasi scolpite nella pietra. Quelle parole “LA MORTE NON È SONNO”..  Tutti quei cognomi in ordine alfabetico, “Battilana, Benetti, Bordin, Breda, Calzavara…”

Fanno finta di seppellire i morti per non seppellire la guerra. Fanno finta di ricordarsi per dimenticare.

La vicenda corre al tempio di Possagno, la bellezza della pietra che diventa carne. Mentre l’ossario è pietra e basta come in guerra, dove la carne di tutti quei giovani diventa pietra.

Luigi Mardegan in Mato de Guera
Luigi Mardegan in Mato de Guera

Mardegan

L’abilità di Mardegan, la potenza espressiva del dialetto trevisano, raggiungono l’apice in tantissimi momenti dello spettacolo.

Basti pensare, quando il ricordo corre alla ritirata di Caporetto. Quella massa in movimento. Quel fiume in piena di gente allo sbando. Quando la nonna servì la polenta direttamente sulle mani sporche,  luride all’inverosimile,  di fango e di chissà cosa altro, di un soldato italiano, che aveva bussato timido alla porta. Dopo aver divorato animaliscamente, le sue mani erano tornate pulite. I suoi capelli erano ricci, i suoi occhi neri come due more. La nonna chiese al soldato da dove venisse. Lui comincia a raccontare.

Granatiere, dal Monte Sei Busi. il mio Buso si chiamava dolina Bari. Attraversammo camminamenti pieni di morti ancora da seppellire con la faccia contro la roccia e dall’altra parte con la faccia che sbatteva contro quei morti. Non c’era pace nemmeno per nessuno lassù sul Carso. Nemmeno per quelli che erano già stati uccisi . La bombe, cadevano in quelle fosse comuni. E brandelli di carne putrida arrivavano fin dentro le trincee.

Il tempio di Possagno

E poi il tempio di Possagno dopo il bombardamento. Una macchia bianca e le colonne, distese a terra, come un organo di morte. Il mondo si era ribaltato.

E quel 24 maggio 1935 in cui, il commilitone, Coppola Fortunato si suicidò, sotto il treno diretto, Udine Treviso . Dopo 20 anni da quel fatidico 24 maggio.. Fortunato che era originario della Sicilia.  Suo padre faceva il sale con i mulini a vento. Sale dal mare, mentre lui, solo tra il fango,  nella trincea. Dopo tutto quello che aveva vissuto, si sentiva sporco dentro. E non riuscì mai a superare. Diceva

Ti lasciano affogare nel pantano per far di te malta. Vogliono che tu ti dimentichi chi sei e da dove vieni.

E dopo un’ora abbondante, lo spettacolo giunge alla fine.

E se parlo e se straparlo e perché tutto ciò mi tiene vivo ed è anche per tutti quelli che non ci sono più.

L’attore

Grande davvero Gigi Mardegan / Mato de guera. Con una sceneggiatura ridotta all’osso. Un letto che è branda di ospedale psichiatrico, ma anche filo spinato, sotto il quale strisciare. E specchio di sangue e sudario di morte quando viene alzato in piedi. Giunto alla replica 500, l’attore e il personaggio, sono oramai un tutt’uno. La trama del racconto è imperniata nei ricordi vividi e angoscianti del reduce. La scelta del dialetto si rivela indubbiamente azzeccata. È difficile non farsi prendere dalla storia che ti entra nelle budella, come una baionetta, in quei poveri corpi, mandati al macello. Da ufficiali di prima linea, malati di protagonismo e da presunti strateghi di tattica militare.

Terzo Tempo

C’è stato anche un “terzo tempo”. Si sono letti i biglietti scritti dagli spettatori. Mardegan si è spogliato dei panni di Ugo Vardanega ed ha risposto alle domande del pubblico. Ha raccontato anche, di quando ha portato lo spettacolo fino in Kurdistan iracheno. Una diecina di anni fa, in rappresentanza dell’Italia. Quando, seppur non capendo nessuna parola, si è creato ugualmente quel pathos, tra lui e quel pubblico lontano. La guerra è guerra ad ogni latitudine. E il grande teatro supera ogni confine. 

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