Percorsi in bicicletta tra Collio, Carso ed Isonzo… sui luoghi della Grande Guerra nella provincia di Gorizia…
Obice da 210 mm. sul Sabotino

Rudyard Kipling I cannoni che aspettano sulle vette

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Rudyard Kipling I cannoni che aspettano sulle vette


Gli autocarri straordinari apparivano ora più numerosi — sulla strada anche più straordinaria — di quello che erano stati finora. La nostra guida ce ne fece gli elogi. «Vedete — ci disse — in questi ultimi giorni siamo dovuti passare da qui, per trasportare molte cose al fronte».

«Ma che forse tutti gli Italiani nascono col volano d’una automobile nelle mani?» chiesi io, mentre la lunga fila di carri, dalle alte coperture, discendevano sulla curva che noi salivamo, e, girando su se stessi come un perno e con l’avancarro quasi librantesi su un precipizio di quattrocento piedi di profondità, strisciavano rasenti alla nostra automobile, lasciando appena tre pollici di distanza fra le ruote.

«No» rispose. «Ma anche noi ci siamo lungamente trenati a questo sport. Anzi immagino che gli chauffeurs inabili siano tutti morti».

«E anche tutti i cattivi muli?». — Uno di questi, che pareva colto da convulsioni, si trovava in una località che appariva — almeno fino a quando non raggiunsi un’altezza di oltre un migliaio di piedi, — come l’orlo di un precipizio.

«Oh, è impossibile uccidere un mulo». Infatti allorchè la bestia ebbe steso le sue proteste, riprese la dignità dei suoi avi. Il mulattiere non fiatò. Noi c’insinuammo su, per i monti e, fra di essi, andammo per strade non ancora segnate sulla carta, ma altrettanto resistenti, quanto lo può rendere un lavoro assiduo ed energico contro il deterioramento prodotto dal traffico degli autocarri carichi dei maggiori pesi, dagli zoccoli taglienti dei muli e dal logorìo dell’inverno, che è il vero nemico. La nostra via scorreva lungo la striscia ripiegata di una catena di monti, alti non oltre i tremilacinquecento e i quattromila piedi e, più o meno paralleli all’Isonzo, nel suo corso del nord. Fiumi che avevano ruggito allo stesso livello nostro sembravano inabissarsi e restringersi fino ad acquistare le dimensioni di fili turchini, appena visibili attraverso le foreste. Le montagne protendevano lunghe spire, che facevano perdere ogni senso di orientamento.

Allora, poichè il nemico che era lontano di circa sette miglia poteva scoprire gli Italiani, alcuni tratti della strada affollata dal traffico erano nascosti da due stuoie di paglia; ma parecchi fori che su di esse si riscontravano, sia in alto, che in basso, dimostravano che il nemico aveva trovato quel che cercava. Dopo di ciò, la falda colossale di una montagna rilucente di acque stillanti, ci nascose tra il verde e l’umidità, fino a che la vista di un frassino dalla tarda fioritura (i suoi fratelli trovati da noi più giù, dieci minuti prima, erano già tutti ricoperti di fogliame) ci avvertì che eravamo giunti alla sommità della brulla giogaia.

E qui erano batterie su batterie di pezzi più pesanti, disposti in modo così vario, e così nascosti, che l’averne scoperto uno non dava nessuna idea della posizione dell’altro immediatamente vicino. Cannoni da 120, da 180, da 240 e anche da 305, caricati su ruote da trattrici, su affusti da marina adattati ad opere terrestri, divisi dalle loro rispettive trattrici o messi in bilico o puntellati sui loro stessi veloci motori, si seguivano per miglia e miglia, con le loro caverne di munizioni, con le loro fucine e con i loro baraccamenti (per migliaia di serventi) sparsi od allineati sulle ripide alture dietro i cannoni stessi.

Puntati al ciclo, questi erano racchiusi in cupe fosse ed in avvallamenti; nessuna immaginazione umana potrà concepire come mai fossero stati portati lassù a dominare. Facevano capolino dalle più piccole feritoie del verde terreno; stavano internati sotto burroni e caverne, in quella località ove nessuna luce poteva mostrare la loro linea e si confondevano con un monticello di stabio dietro ad una stalla.

Si trovavano installati nel folto della foresta, simili ad elefanti nell’ora meridiana, o, per così dire, strisciando acquattati sul ventre, fino all’orlo di creste, dominanti mari di montagne. Come gli altri situati più giù sulla linea, aspettavano l’ora e l’ordine. Neppure una mezza dozzina di essi apriva la bocca per parlare. Quando giungemmo ad una località stabile, lo sportello di un osservatorio ci fu aperto sul paesaggio sottostante. Vedemmo l’Isonzo svolgersi quasi verticalmente sotto di noi e al di là erano le trincee italiane, che si inerpicavano a stento dalle rive del fiume fino alle creste delle brulle giogaie, dove è la fanteria, che deve essere vettovagliata nell’oscurità della notte, fino a quando gli Austriaci non saranno scacciati dalle alture superiori.

«Questo è proprio come lottare con un ladro sui tetti», disse l’ufficiale. «Voi potete scoprirlo dalla cima di un comignolo; ma egli può scoprir voi dalla guglia della cattedrale, e così via».

«Ma chi mai riuscirebbe a vedere quegli uomini nelle trincee laggiù?» domandai.

«Chiunque può vederli, da ambedue le parti; ma essi sono coperti dai nostri cannoni. Tale è la nostra guerra. L’altezza è tutto».

Egli nulla mi disse del lavoro immane che tutto ciò richiede, prima che un solo uomo o un solo cannone potesse colà istallarsi; nulla della battaglia che infierì in quelle gole, lassù, quando l’Isonzo fu varcato e le trincee italiane si aprirono penosamente il varco sanguinoso su per il versante del monte; e disse ben poco altresì di quella mostruosa gibbosità, intrisa di sangue, che si chiama il Sabotino, e che fu presa, perduta e ripresa, nel modo più glorioso, durante i primi giorni la guerra; mentre ora giaceva lì, sotto di noi, apparentemente calma, come un pascolo montano.



È una razza tenace, questa latina, che dovè combattere le montagne e tutte le insidie che nascondono, metro per metro; che è grata alla sorte, quando i suoi campi di battaglia non si trovano su pendii di più di quarantacinque gradi di inclinazione!


Podgora – Gorizia Un valico, un Re, e una montagna

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